Lottare per il diritto all’accesso all’acqua significa anche lottare per il diritto alla salute.
Mai questo è stato così chiaro come in questo momento, infatti l’igiene, il lavaggio frequente delle mani e la pulizia delle superfici sono indispensabili per prevenire il contagio del virus.
Oltre 27000 morti ad oggi, 150 medici, 34 infermieri e 10 farmacisti deceduti per aver svolto il loro lavoro senza adeguati mezzi di protezione individuale , blocco di tutte le attività non essenziali per circa 2 mesi, persone chiuse in casa, divieto di assembramenti e riunioni…..
Molti hanno paragonato questa situazione a quella di una guerra. Per il 25 aprile medici, infermieri e il personale sanitario sono stati rappresentati come i nuovi eroi di questa “pandemia” che, sembra, ci sia capitata addosso in maniera del tutto inaspettata.
In realtà questi eroi , sono stati carne da macello sacrificati sull’altare del neoliberismo!
Infatti oggi ci troviamo a subire le conseguenze di anni di politiche finalizzate a smantellare quei diritti riconosciuti dalla Costituzione, che lavoratori e cittadini si sono conquistati, anche a costo della vita e che nel corso degli anni, partiti politici, sindacati e associazioni, hanno contribuito per ricondurli ad una mera formalità.
Dopo la Costituzione del ’48, la Legge 833 del 23 dicembre 1978 ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) con il quale si garantiva l’universalità, l’uguaglianza e l’equità di un diritto umano fondamentale per tutte/i.
Con le riforme degli anni ’90 si delega la salute pubblica alla competenza delle regioni e si introduce l’aziendalizzazione, trasformando le USL in Aziende e gestendo la sanità come fosse una “fabbrica” con budget e utili, strozzata da esigenze di bilanci sempre più ristretti e accompagnati da tagli ai finanziamento.
Le scelte politiche dell’efficienza efficacia ed economicità impongono la riduzione dei servizi territoriali, più costosi ma necessari per svolgere l’assistenza sanitaria sul territorio in modo da non aggravare l’attività ospedaliera. Invece si lavora al risparmio, di strutture sanitarie, di attrezzature, di formazione e sopratutto di personale.
Allo stesso tempo si favorisce e sovvenziona la sanità privata, sopratutto per la diagnostica e piccole degenze. I problemi più grossi e più costosi come le terapie intensive restano al pubblico.
Con questo quadro si è affrontata e si continua ad affrontare alla cieca in Italia la pandemia del coronavirus.
Eppure in Italia era stato già approvato il Piano nazionale di preparazione e risposta a una pandemia influenzale https://www.epicentro.iss.it/focus/flu_aviaria/pdf/pianopandemico.pdf che aveva messo in evidenza la necessità di una precisa organizzazione tra livelli nazionale, regionale e territoriale “poiché tempistica e qualità degli interventi sarebbero risultati essenziali”, dicono le conclusioni di chi ha predisposto il piano (https://www.epicentro.iss.it/focus/flu_aviaria/modello).
Il piano sulla pandemia prevede 6 fasi in base al grado di diffusione del virus.
Già nelle prime fasi, quando il virus è stato identificato ma non ha ancora causato infezioni nell’uomo, il piano prevede azioni di organizzazione e coordinamento tra autorità competenti , monitoraggio della diffusione e sorveglianza sanitaria, censimento delle strutture esistenti e la definizione del fabbisogno sanitario, sia per i dispositivi di protezione individuale (DPI) per il personale, sia delle macchine e attrezzature necessarie per fronteggiare l’eventuale emergenza.Nonostante il 31/12 le autorità cinesi avessero segnalato all’OMS l’esistenza di numerosi casi di polmonite da virus, il 7 gennaio viene identificato il virus ed il 9 viene documentato dall’OMS il primo decesso a causa del virus, l’Italia resta ferma a guardare senza fare niente.
Le prime ordinanze del ministero della salute con le indicazioni sulla gestione dei casi nelle strutture sanitarie, l’utilizzo dei DPI per il personale sanitario e le precauzioni standard di biosicurezza e il controllo sanitario dei passeggeri in arrivo in Italia dai paesi covid vengono emana te a fine gennaio. Misure molto lontane e molto in ritardo rispetto a i tempi previsti nel piano pandemico e che rimandano alle regioni il compito di organizzarsi per fronteggiare l’arrivo della pandemia. Ma i territori sono sprovvisti di personale preparato, di mezzi e attrezzature adeguate ad evitare il contagio degli stessi operatori sanitari, che infatti diventeranno i vettore del virus.
Solo a marzo sarà possibile fare sulla piattaforma CONSIP l’approvvigionamento di DPI e altra strumentazione necessaria. Troppo tardi!
Invece di adottare il Piano pandemico in tempo utile, attivando i servizi necessari, si decide di dichiarare lo stato di emergenza sanitaria e affidarne la gestione alla protezione civile, che gestirà i finanziamenti stanziati attraverso il f.do emergenze, come se fosse una calamità naturale imprevedibile.
L’Italia si è ritrovata schiacciata dalla pandemia e l’unico mezzo utilizzato per contenerla è stato l’isolamento delle persone con il blocco intero di tutte le attività, con conseguenze disastrose come aumento della disoccupazione, aumento della povertà e crollo di interi settori economici, tranne quelli che la Confindustria raccomanda al governo! E come succede sempre nelle emergenze alcuni settori invece incrementano i profitti anche a 3 cifre come le case farmaceutiche, la logistica, tutto il settore del digitale o la grande distribuzione organizzata.
Con il blocco delle attività si ha anche il blocco dell’attività sanitaria; mentre gli ospedali covid sono allo stremo, negli altri ospedali, nei distretti e poliambulatori, invece di organizzare le misure di prevenzione (pre-triage, ingressi separati, etc. etc.) si blocca l’attività sanitaria per paura del contagio!
Paradossalmente il presidio sanitario che dovrebbe essere il luogo più sicuro, è diventato il luogo principale di diffusione del virus, per mancanza di organizzazione e preparazione.
Sono state sospese tutte le visite specialistiche, si lavora a malapena sulle urgenze. Per quasi due mesi, per tutte le malattie non covid non c’è cura.
Anche le case per anziani vengono coinvolte in questa assurda giostra di pressappochismo e menefreghismo, che provoca un’ecatombe sui soggetti a rischio.
Quando ormai la pandemia è al picco della sua diffusione vengono stanziati altri fondi a favore della protezione civile per fronteggiare l’emergenza (aumento fondo emergenze, assunzione veloce per medici, aumento dei posti letto di terapia intensiva, finanziamento dell’ISS ), con il rischio di creare strutture che in futuro serviranno a poco.
Vengono adottare nuove misure (insufficienti) di sostegno per imprese e famiglie.
Il finanziamento del cura-Italia e quelli che verranno per far ripartire l’economia hanno ingigantito ovviamente il debito pubblico che consegnerà l’Italia nelle mani del ricatto economico europeo e che sicuramente tornerà a gravare sulle spalle di cittadini e lavoratori in termini di riduzione dei servizi pubblici, riduzioni di stipendi.
Insomma è un cane che si morde la coda o la solita ricetta liberista per indebitare della popolazione di uno stato per poterla meglio ricattare dopo, tipo l’esempio greco ancora in atto?
Ora si ragiona sulla “fase 2”, ossia la ripresa delle attività economiche prima e, poi, l’uscita dall’isolamento, ma non ci può essere ripresa senza il potenziamento dei servizi pubblici.
E’ necessario che il sistema economico venga ripensato nell’ottica di tutela e di salvaguardia dell’umanità, partendo dall’ambiente, dal la tutela delle risorse idriche e dal potenziamento dei servizi sanitari per poter affrontare questo ed altri virus che verranno.
E’ necessario ripensare il sistema sanitario non su b asi economiche ma nell’interesse della salute, potenziando i servizi di prevenzione e sorveglianza sui territorio, attraverso la collaborazione tra medici di base e pediatri, ospedalieri, assistenti sanitari e infermieri delle ASL, in modo da segnalare la presenza delle malattie, avviare le attività di identificazione dei fattori di rischio, le fonti dell’infezione, ricercare i contatti, organizzare interventi o azioni per prevenire ulteriori casi di malattia legati al rischio espositivo, valutare le strategie esistenti o implementarne di nuove al fine di prevenire ulteriori episodi e sopratutto curare i malati prima che le loro condizioni si aggravino.
T ornare quindi a un vero servizio pubblico, senza logiche di mercato, che abbia come obiettivo solo la tutela del la salute di tutti, esattamente come va ripensata la gestione del servizio idrico, che deve essere totalmente pubblica e partecipata da cittadini e utenti.